Ken Tielkemeier

L'arte dell'Espressionismo Magico

Artefice della corrente artistica identificata dallo scrittore Leonetto Leoni come Espressionismo Magico, Ken Tielkemeier è stato un artista che nelle sue opere ha raccolto l'essenza dei luoghi dove ha vissuto, degli artisti che ha frequentato e della esperienze di vita che lo hanno segnato.

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Biografia Critica di Marco Moretti, 2001

Viaggio nell'"Espressionismo Magico"

Da un paio d'anni è tornato a Firenze il pittore americano Kenneth Tielkemeier, detto Ken. L'artista, con la moglie Franca Barbara Frittelli, anche lei pittrice, dopo un lungo peregrinare tra New York e Firenze ha definitivamente optato per la città del cuore, dove, tra gli anni '50 e '60, completò il suo non breve né semplice itinerario formativo, e dove la sua espressività figurativa si avviò per arcani meccanismi verso quella libera espressione dell'inconscio che denominerà il messaggio poetico e sconvolgente della sua pittura, che lo scrittore Leonetto Leoni definì con accostamento bontempelliano espressionismo magico.

Una pittura espressa mediante colori assoluti, feroci, inauditi vorrei dire per cercar di collegare l'impatto di quei cromatismi al trasalimento che parimenti suscita il contenuto che vi è evocato, tanto da richiamare alla mente l'assunto di Dubuffet per cui "l'arte deve far paura e rallegrare. L'arte è fatta di follia e di delirio: niente maniera, niente abitudine, nessuna astuzia o saggezza culturale…”

Nello studio di via Guerrazzi l'artista mostra i suoi lavori; e mentre muove un grande dipinto fissato provvsoriamente sul telaio, la tela ondulando contribuisce a confermare la sensazione di come questi dipinti riescano davvero a far tremare i muri. S'indovina, fin dai primi scambi di parole, come dentro la pacatezza dell'uomo si agiti una personalità articolata e complessa, specchiante quella dicotomia medesima che intercorre tra quel suo calmo discorrere, che curiosamente evoca le cadenze dei battelli a ruota del suo Mississipi, e il carattere urlante e concitato della sua pittura. L'artista racconta come sul finire dell'ottocento uno di quei boats era affondato nel grande fiume, trascinandosi dietro un grosso carico di cuoio e pellame: tutto il capitale di anni di lavoro che suo nonno paterno, un calzolaio tedesco di Hannover approdato verso gli anni '70 nell'Illinois, aveva reinvestito nel lavoro, e dalla cui perdita rimase completamente rovinato.

Ken non è mai stato nella terra del suo avo; né, come afferma, nel pur lungo e variatissimo alunnato artistico, non ha mai avuto insegnanti tedeschi. È dunque straordinaria la constatazione di come sia potuta filtrare, a puro livello di DNA, la predisposizione a un segno forte, espressionista in senso lato, che il giovane artista andrà poi a ricercare tra culture sparse in tre continenti: tracce tra loro estranee in apparenza, ma in verità accomunate da necessità espressive radicate nella vitalità di popoli diversi.

Dagli States al Giappone e al Messico

Ken Tielkemeier aveva studiato alla scuola d'arte serale della Washington University di St. Louis, nel Missouri, città dov'era nato nel 1929.
Chiamato alle armi nel 1951, al tempo della guerra di Corea, sarà esentato dalla zona delle operazioni perché rimasto figlio unico dopo la morte del fratello Melvin, allievo ufficiale, e verrà inviato in Giappone in forza allo Special Service, il servizio di propaganda delle truppe americane.
A Tokyo aveva ripreso lo studio del nudo, iscrivendosi nel '52 alla scuola di Ginza Street. Frequenterà inoltre lo studio del pittore Fujikawa e successivemente quello dello scultore lwao Norimatsu, che raffigurerà il giovane americano in un bronzo ora al museo dedicato al maestro a Matsuyama.

Durante il periodo trascorso in Oriente Ken maturerà la decisione di dedicarsi totalmente alla pittura. Congedato, dopo un breve soggiorno in patria, cogliendo spunto da una mancata ammissione all'lnstitute of Technology alla Chigago University, se ne andrà in Messico, attratto dal fascino del primitivo e dalla moderna pittura di Tamayo, Rivera, Orozco, Siqueiros. A Città del Messico frequenterà la Academia de San Carlos e poi la Escuela Esmeralda con il pittore Orozco Romero. Un periodo proficuo, dove attraverso lo studio nei musei dell'arte antica e contemporanea e la pratica del disegno e della pittura in grande dimensione, prenderà corpo la sua ancestrale visione espressionista, connaturandosi in un forte significato di segno e di colore. Tornerà a casa nel '55, arricchito dal bagaglio di esperienze messicane che in pittura renderanno un primo Autoritratto destinato a rimanere uno dei dipinti più significativi nell'opera dell'artista: la fisionomia di Ken entra nel quadro quasi con timore, il lungo collo e la testa inclinate in un assetto emotivo, i tratti del volto tesi a carpire nella lucida fisicità dello specchio l'oscuro groviglio che si cela nel metafisico specchio dell'anima. Un autoritratto che svela la sua personalità articolata e complessa, i suoi trascorsi e i sui fantasmi, come pure la sua ancestralità mittleuropea, registrabile in quel taglio espressionista che richiama un'incidente quanto combinatoria somiglianza con I’“autoritratto con alchechengi” di Schiele, detto pure delle “lanterne cinesi”; anche se, come tiene a precisare Ken, l'artista austriaco non ha mai influito sulla sua pittura.

New York e l'influenza europea

Dopo aver dipinto a Saint Louis l'Autoritratto, il giovane si era stabilito in quello stesso anno a New York, dove nel clima di un grande fervore artistico iniziato nel decennio precedente sulla spinta di pittori per la maggior parte espressionisti e surrealisti fuggiti dall'Europa prima e durante la guerra, si era da poco imposta un'avanguardia dominata dalla figura di Jackson Pollock, esaltante un'informalità materica di rivendicazione tutta americana, per la quale il critico Rosemberg aveva creato una felice identità: “Action painting”, testualmente “azione del dipingere”, con la quale l'atto gestuale dell'artista era dichiarato come una diretta “azione filosofica” collegato ali' impulso della “creatività umana”.
Una pittura che non interesserà il giovane Ken, che invece si orienterà verso le varie lezioni espressionistiche figurative scoperte giorno dopo giorno nei musei e nelle gallerie, come la pittura mossa e dirompente di Kokoschka, o quella più scandita e netta di Beckmann, o ancora l'altra, oggettiva e insieme surreale di Hopper. Attento osservatore, il giovane Ken non si lascerà fuorviare da certa pittura importata quale novità artistica, ma in verità solo abile riproposizione in terra americana della lezione di grandi maestri europei come Picasso e Matisse.
In quella solitaria indagine sull'espressività della forma, del colore e della luce, Tielkemeier s'interesserà anche all'opera di pittori italiani come De Chirico, Boccioni, Balla e soprattutto Carrà. E idealmente rivolto a quella lezione, il giovane artista partirà nel '56 per l'Italia con la borsa di studio G.I. Bill ottenuta come veterano. A Perugia frequenterà la scuola di lingue per stranieri e quindi l'Accademia di Belle Arti, dove insegnava l'ex futurista Gerardo Dottori. La sua aspirazione rimaneva però l'Accademia di Brera dove insegnava Carrà, le cui opere continuavano a interessare il giovane per quella arcaica incisività e austerità tonale che già Longhi aveva registrato come "terribilità delle ombre", definendo l'artista "pronipote di Masaccio". Continuava insomma l'attrazione per una espressività pronunciata, che come altre ricercate in precedenza andava a rimestare il fondo dell'animo di Ken, la sua intricata interiorità nella quale giocavano forse anche complesse ascendenze natali dai flussi di sangue tra i più disparati: germanici e mittleuropei da parte di padre, inglese e indiano -della tribù Black Foot- da parte di madre.

Firenze e la scoperta dell’“umanesimo”

Una volta giunto a Milano, Ken verrà informato che Carrà aveva cessato il suo insegnamento. Deluso, pensò di abbandonare l'Italia, andando ad imbarcarsi a Napoli e tornare a New York. Senonchè, visitando il Museo d'Arte Moderna di Brera venne attratto da un'opera di arcana forza espressiva: I filosofi, tre figure sedute in un interno illuminato da una luce surreale. Figure di taglio quasi carraiano, ma con un sentimento più acre e dolente che ben si raccordava a quello di Ken. l’autore, come gli venne riferito, si chiamava Ottone Rosai e insegnava all’ Accademia di Belle Arti di Firenze. Decise di andare a conoscerlo, tanto più che scendendo verso Napoli Firenze con i suoi musei rientrava come Roma nelle tappe d'obbligo previste.
Ken rammenta la sua entrata all'Accademia in piazza San Marco, sul finire del '56; la ricerca della classe di Ottone Rosai, l'impatto con i caratteri del suo nome vergati a pennello sulla porta come la firma su un quadro. E quindi la conoscenza del maestro, che guardò le sue cose, riconoscendo come quel giovane straniero fosse “sulla vera strada della pittura”.
La decisione di stabilirsi a Firenze per frequentare l'Accademia nella classe di pittura di Rosai, fu una decisione che cambierà la vita di Tielkemeier come artista e come uomo. Frequentava quella classe anche Franca Barbara Frittelli, già dal '40 allieva di Rosai al liceo artistico ed ancora sua fervente “discepola”. Un'allieva sui generis, che come ha ricordato Mario Luzi, «seguiva Rosai anche fuori, nei vagabondaggi al caffé. Era, mi pare, l'unica presenza femminile in quel gruppo di maschioni dalle varie e controverse preferenze. Quella ragazza dal volto affilato e roseo, dalla corporatura efebica beveva gentilmente ma con avidità ogni parola e gesto del maestro, impermeabile alle licenze e alle sconcezze verbali della troupe.»
Ken s'inserirà, guidato da Franca Barbara, tra le personalità dell'arte e della letteratura ai tavoli delle Giubbe Rosse. L’incontro di Franca con Ken fu il classico amore a prima vista. Pochi mesi dopo, il 15 aprile 1957, si sposarono con la laica benedizione del loro maestro.

Divenuto stabilmente fiorentino con atelier in palazzo Pandolfini in via San Gallo e poi in via Ricasoli, Tielkemeier approfondì lo studio dei maestri del rinascimento anche attraverso le lezioni universitarie di Roberto Longhi, sempre più affascinato dalla scoperta dell' “umanesimo italiano”, avvertito con straordinaria continuità fin nella scuola di Rosai. Così scriverà Franca Barbara Frittelli:
«Le sue assidue visite agli Uffizi, agli altri musei e alle chiese di Firenze fecero crescere in lui la sicurezza, l'equilibrio della propria espressione, attraverso travagli e smarrimenti non indifferenti, ma che fecero parte tutti insieme dell'accrescimento della sua formazione.»

Acquisizioni venute a solidificarsi nei colori di Masaccio, che ben si accordavano con la lezione cromatica delle trascorse stagioni di Rosai. Tra i primi dipinti di quel nuovo periodo è il Nudo con testa di leone, un autoritratto di bassa tensione cromatica dove la linea di un fosco orizzonte taglia la figura all'altezza del collo, mentre la testa del leone appare come proiettata da una linea alle spalle della figura nuda che si copre con un mazzo di foglie e di fiori. Ancora un autoritratto inquieto e inquietante, nel quale tornano ad evidenziarsi quei “travagli e smarrimenti” rammentati dalla moglie. È anche un'opera dove la vena di un espressionismo surreale affiora in tutta la sua evidenza, saldandosi per i suoi fondi cromatismi ad un accentuato esempio masaccesco fuso con la moderna lezione d'un Viani, ma che già si avvia solitario per un proprio mentale cammino che nessun toscano moderno o antico avrebbe potuto indicargli.

Nel Ritratto di Franca dell'anno successivo si avverte ancora l'impianto stilistico e cromatico della lezione di Rosai, pur sterzata in accenti propri che pongono la figura della compagna come in un “mentale” isolamento; un dipinto che il maestro apprezzerà moltissimo. Poco dopo, a neanche un mese dalle nozze dei due allievi, Rosai morirà improvvisamente a Ivrea, lasciando nella desolazione coloro che gli erano vicini. Proprio in quel giorno Ken aveva terminato il dipinto di Giulietta, sul quale, a ricordo della concomitanza dei due eventi, apporrà per esteso la data, 13 Maggio 1957.

In quel medesimo anno sortirà dalla sua mente il primo dipinto sintomatico d'una svolta destinata a maturare nell'aria fiorentina: il Gatto Volante, un enorme, rigido felino in aria tra due quinte di palazzi che pareva ispirato ai comportamenti estrosi del gatto dell'amico Romano Bilenchi, formidabile saltatore. È la prima opera improntata totalmente alla “provocazione” surrealista, espressa in una tavolozza di crudi e bassi cromatismi. Con simili scalature di colori Ken dipingerà nell'anno successivo il Nudo maschile in interno, "Vico" caratterizzato da un'accentuata plasticità ancora memore di Orozco, e l'intenso Autoritratto con sciarpa rossa, al cui personale esito il giovane artista perviene facendosi largo tra suggestioni di Tamayo e di Rosai. Nel '58 è da menzionare Piazza Pitti, peculiare visione della famosa piazza fiorentina dipinta in un basso tessuto cromatico di gialli e di ocre, intessuto di recenti suggestioni sironiane e di Rosai. Ma ritorna in quell'anno, con Allegoria dell'Estate n° 1, l'impulso della visione fantastica: una libera interpretazione di corpi al sole, tra cui la precedente figura dell'autoritratto nudo; un dipinto che nel '58, in occasione d'un temporaneo soggiorno americano, Ken esporrà a St. Louis, per il quale sarà premiato da una giuria presieduta da Larry Calcagno.
Gli anni fiorentini trascorsi fino al '61 all'Accademia si esauriranno in questa intensa quanto insofferente ricerca. Anni del resto assai nebulosi anche per il generale percorso dell'arte, nei quali si erano affermate, di là e di qua dall'oceano, le correnti astratte ed informali che mettevano in dubbio lo sopravvivenza stessa dell'arte figurativa. Nel trapasso dal '50 al '60 ecco arrivare da New York la Popular Art, la cosiddetta Pop Art di Warhol, di Lichtenstein, di Dine, di Segal e compagni, che, nell'affermarsi del consumismo di massa, riproduceva serialità d'immagini commerciali fortemente pubblicizzate. Tielkemaier, che credeva fermamente nella rappresentazione di una ricerca figurativa suscitata da emozioni proprie, scaturite dalle profondità di un ego imprescindibile regolato da un'intima e autonoma sensibilità, veniva a trovarsi sulla riva opposta a quella della nuova corrente apportatrice di stereotipi d'immagini, di conclamati simboli commerciali e umani sbandierati dal consumismo dei media.

Verso la rappresentazione dell'inconscio

Se dunque chiara era la sua posizione nei confronti delle avanguardie, più oscure erano le scelte per procedere in maniera autonoma, le cui cognizioni apparivano a Ken -ormai oltre la soglia dei trent'anni - come ricerche svolte ma non concluse. Vi era ancora qualcosa d'inafferrato che a tratti percepiva in quella sua medesima angoscia di fondo: forme indistinte ancora sconosciute ma che insistentemente premevano per manifestarsi, fino allora soffocate dall'acquisizione del bagaglio razionale che finiva per padroneggiare sulla tela.
Per liberare quel groviglio ancora misterioso non erano state sufficienti le celesti allucinazioni di Orozco e di Tamayo, né degli altri grandi messicani; né in Italia gli era bastata la lezione forte e struggente di Rosai, che penetrava e dolcemente riecheggiava la sua angoscia, né quella perentoria d'un Sironi o quella estrema e scarna d'un Viani. Né, d'altro canto, la sua ricerca poteva esaurirsi nella generica risorsa espressionista, seppure in ogni modo imprescindibile. Avvertiva nel fondo qualcosa d'altro, al quale mediante quei forti stimoli si era approssimato, facendolo appena affacciare all'orlo del suo abisso.
Tale era dunque l'impasse in cui versava l'artista al termine del suo periodo all'Accademia fiorentina: un sintomatico arresto determinato dalle forze uguali e contrarie dii razionale e dell'inconscio.
Riguardando all'inizio: cosa cercava di cogliere dentro di sé Ken Tielkemeier nel '55, in quel suo primo autoritratto? Vi erano già in quell'opera i segni di un disagio di non ancora matura determinazione. Le istanze di allora lo avevano condotto sulle tracce della conoscibilità d'un segno entro cui inscrivere il fondante linguaggio delle sue forme. Ora che tutto ciò appariva acquisito, sentiva la sua ricerca non esaurita: come se tali assimilazioni non fossero che tessere di un puzzle con le quali esprimere un disegno che, originato dal perpetuo senso di un'angoscia, potesse dare forma tangibile al mistero del suo grido interno.

«Un'arte che non ci affacci al mistero è inutile» ha scritto Franco Rella nella sua “Rivoluzione impressionista”, riallacciandosi al concetto di Macke secondo cui «la forma stessa è mistero, perché espressione di forze misteriose. Solo attraverso le forme intuiamo le forze segrete, il “dio invisibile”.»

Quelle “forze segrete” e assillanti stavano ora per liberarsi, non senza apparente contraddizione, al cospetto della classicità del rinascimento fiorentino, nel cui sentimento era però implicito anche il messaggio della centralità dell'individuo: di quell'umano libero arbitrio per operare secondo la propria volontà, che pareva avesse sotterraneamente maturato il concepimento espressivo la sua determinazione di ciò che pareva fosse del tutto inesprimibile, liberandolo appunto nell'arbitrio egocentrico e irrazionale di “altre realtà” possibili. Ciò avverrà di lì a poco, nel '62, con un'opera non a caso intitolata Marching men, uomini in marcia, dove in una tavolozza di luci corrusche a lui congeniali l'artista ricreava l'altra sua “realtà”, affiorata in un paesaggio geometricamente segnato, sul cui piano intermedio avanzano tre “configurazioni” umane, mentre alle loro spalle stanno due sfere vegetali, forse cactus, che come ispidi e ingarbugliate asperità sono state appena superate da quegli uomini in marcia verso le alture chiomate all'orizzonte.
Opera sintomatica, Marching men sarà dunque il dipinto che inaugurerà la nuova pittura di Ken, finalmente libera di esprimere interamente ciò che di inesprimibile era finora rimasto del suo mondo interiore. Giorgio Colli, nel suo volume “Filosofia dell'espressione”, fa capire similari oscuri meccanismi di visione parlando del “carattere manifestante”: espressione di «qualcosa nascosta nel profondo» che “rinvia” a una «immediatezza extra rappresentativa», dove alla forma si affianca l’«l’arbitrio del gioco». Quel superamento per oscuri meccanismi della vigile coscienza, ossia della kantiana "ragione ragionante", permetterà a Tielkemeier di abbandonarsi alle espressioni aggallanti dal suo fondo. Come si sono chiesti e come possiamo ancora chiederci di Klee (evocatore di un "territorio magico dove il controllo dei mezzi viene tradotto in infinite possibilità di forme fantastiche") quanto abbiano influito "le cupe ossessioni che dovettero turbare la sua infanzia" che "si risolvono, nelle opere mature, in un'offerta all'uomo in immagini di sogno", così potremmo chiederci per quelle liberate dalla 'vigile coscienza' di Tielkemeier.
Anche per il nostro artista l'infanzia e la prima gioventù non trascorsero prive di traumi. Subito dopo la nascita i gravissimi problemi inerenti al trattenimento del cibo fecero temere per la sua sopravvivenza. Poi, ancora bambino, la lunga malattia che alienerà per sempre dal mondo domestico la figura della madre. Infine, a sedici anni, la perdita dell'adoratissimo fratello Melvin, sei anni maggiore di lui e principale riferimento. Ce n'è a sufficienza per proiettare fino all'età matura, specie se si è incapace d'altri sfoghi, travagli e inquietudini repressi dal razionale ma inalienabili nel fondo, che si agitano nella sfera dell'inconscio.

"Nous vivons avec le monstre", come traduce alla lettera il verbo surrealista riguardo all'esprimibilità del mondo dell'assurdo, che più o meno oscuramente si agita in ciascuno di noi. Il quale, se e quando in qualche modo "esorcizzato", può arrivare a sublimarsi per arcano meccanismo in fantastiche e poetiche immagini liberatorie.
Nel nuovo fervore della prima metà degli anni '60 verranno così a manifestarsi su grandi tele, dominate da un crudo e vivo senso del colore, composizioni ispirate dal dato reale ma prosciolte da ogni convenzionalità compositiva. Ecco il Venditore di banane, concepito sull'omonima realtà registrata in quell'estate a Marina di Massa, e le tre opere altamente significative del '64 come Flamenco, la Grata rossa con libellula e La terrazza. Dipinti dominati dal senso del ludico e del dramma, in ogni modo avvincenti per la loro trama cromatica e compositiva. Così la sintomatica Grata Rossa, dove l'angoscia urlata dall'uomo dietro le sbarre viene accentuata dall'inquietante, gigantesca libellula, che domina il primo piano.
Animali e insetti che come vere e proprie entità zoomorfe prendono a scorrazzare sulle tele di Ken come logos di entità liberate. Saranno in prevalenza libellule, farfalle, colombe, pappagalli, salamandre; e il cane, raffigurato - a parte il suo candido e amatissimo maltese Schatzy - sempre in chiave aggressiva.
Fantastici simboli che s'inseriscono, talvolta assieme alla forma umana o a quella che ne è la sintesi, nelle complesse organizzazioni dei dipinti, dove una rete di segni geometrici spartisce e organizza piani prospettici, come ne La terrazza, dove al caos apparente della prima osservazione subentra una forza armonica d'altro ordine e di alta poesia.

Il primo risultato di quel viaggio interiore, Marching men, venne esposto nell'ottobre-novembre del '63 allo Chalet Fontana assieme ad altre ventidue opere di vari periodi. Tre anni dopo Tielkemeier esporrà a Bologna nella sede della Johns Hopkins University, e poi di nuovo a Firenze alla galleria Proposte con presentazione di Mario Luzi, nella quale il poeta coglie da par suo l'esteriorizzato senso interiore di quella pittura che «parla chiaro, grida forte da tutti i suoi segni ispidi, da tutti i suoi colori violenti, spesso volutamente inconditi, non assorbiti, come se sotto la minaccia di tante sbarre e steccati, di tanti mostri pronti a costringerla, a comprimerla, a perderla, la libertà dell'uomo trovasse ozioso e perciò non artistico, parlare altra lingua che quella della sua allucinante e delirante protesta. Siamo dunque di fronte a un incubo e al tentativo di liberarsene mediante la confessione impellente e gridata, senza lasciare tempo a un ripensamento. L'incubo del mondo moderno alienante - per eccellenza americano - che l'amico Ken vive e si porta dietro - in corpore suo - con le sue fughe e ritorni e nuove fughe da New York, Chicago, Saint Louis, sua città natale, a questa illusione di pace e di riconquista umana in Italia, a Firenze.» E così Umberto Baldini, su La Nazione, coglierà in senso critico la valenza di quella ricerca: «Notevole ci pare il passo compiuto, nella ricerca precisa di un linguaggio che si fa sempre più personale, che si è completamente liberato di solvenze nostrane (che pur gli hanno servito e gli hanno dato la possibilità di una maturazione umana di grande rilievo); la sua pittura ha accenti chiarissimi nell'eccitazione continua di una situazione drammatica che impegna la sua natura di uomo moderno entro l'allucinante incubo del mondo moderno alienante e gli fa compiere una protesta cosciente e immediata. E ci pare che anche pittoricamente la sua natura si sia adeguata in modo più preciso, più sostanzioso, proprio per una semplicità e nudità che va diritta al segno.»

L'artista americano continuerà nei decenni successivi ad esprimere le sue necessità pittoriche del dato oggettivo e quelle del proprio mondo interiore, la cui sfera è, come quella della realtà cosciente, un potenziale divenire delle immagini.
Alternate in quella duplice ma eppure unitaria identità, ecco opere come la rappresentazione giocosa e fantastica della fiorentina Piazza Beccaria (che nel 1980 verrà esposta in una collettiva alla galleria newyorchese di Marisa del Re) dipinta sul filo d'uno spontaneo impulso creativo, per il quale la piazza viene a riassumersi in una sorta di pista circense isolata da ogni rapporto prospettico, con al centro un vaso di fiori attorno a cui ruotano biciclette e pedoni. Opera emanante una poetica indisciplina surrealista, per la quale, come ammonisce Salvator Dalì, «chi non sa rappresentarsi un cavallo al galoppo su un pomodoro è un idiota».

Nella pittura del dato reale Ken offre pregevolissimi saggi della sua raggiunta maturazione entro il connaturato assunto espressionista, come nel bellissimo ritratto della figlia lnghe. Un dipinto ottenuto per solidi volumi cromatici, “summa” di rapporti acquisiti e assorbiti ormai in una unità stilistica squisitamente propria. Tale intensa capacità costruttiva si riaffaccerà nel tempo, come nei forti disegni del modello Otho Dilworth, incontrato nel ritorno con la moglie a New York, dai quali sortiranno gli altrettanti magistrali dipinti del medesimo soggetto seduto. In quel ritorno americano che dal '78 durerà, salvo qualche breve periodo fiorentino, per un ventennio, Tielkemeier lavorerà appartato assieme alla moglie Franca nella sua casa tra il verde della collina davanti alla baia di New York.

Il cerchio si chiude

In America, le avanguardie si erano succedute le une alle altre, lasciando impronte dei loro slanci alle generazioni future. Per allora, all'inizio degli anni '80, stavano rimontando, su pressione di artisti europei come Baselitz e Penck (di un decennio più giovani di Ken) nuove ma non nuove istanze figurative orientate al surreale e al fantastico. Wolfang Becker, direttore del Museo di Aquisgrana, in un suo famoso saggio spiegava la nuova tendenza espressiva e figurativa dell'arte contemporanea, nella quale «fosse plausibile stabilire delle relazioni tra i drappeggi sontuosi degli americani, i quadri espressivi degli artisti tedeschi e la cerchia dei fauvisti attorno a Matisse», mettendo «in rilievo la connessione tra gli sviluppi neofigurativi dell'arte americana e tedesca», al punto di coniare per la giovane generazione successiva a quella di Baselitz e di Penck, nata a cavallo degli anni '40-'50, la denominazione di "nuovi selvaggi".
Ritornavano dunque, dopo mode e tendenze, quei nessi espressivi entro i quali da sempre muoveva la pittura di Tielkemeier. Processi d'ambito visionario, riaperti dalla ricerca delle nuove generazioni che approdavano a Kassel tra la fine degli anni '70 e nel decennio successivo nelle varie edizioni di “Documenta” con puntuale riscontro di critica e di mercato anche di là dall'oceano. Giovani artisti come i tedeschi Fetting e Dahn, e il trittico italiano dei Cucchi, Paladino e Chia, fino all'americano Basquiat, nato a Brooklyn nel '60. Giovani che nella sfera delle suggestioni figurative andavano, e ancora vanno ricercando in un proprio distinguo, il dato interiore dell'uomo.

Una ricerca che Ken continuava nel suo solito, inguaribile volontario isolamento, interrotto solo da sporadiche mostre collettive in varie gallerie newyorchesi, dalla Marisa del Re alla City Center, dalla Imago ali' Agora di Soho. In quella solitaria ricerca si alternano sulle sue tele il senso del ludico e del drammatico, opposti sentimenti nei quali l'uomo è chiamato a riconoscersi. Come in Uomo e lucertola, nel quale ancora riecheggia l'urlo di un essere nudo, prigioniero di cancellate, impotente di fronte alla società che classifica, isola, impone; soliloquio di un dramma dipinto a colori violenti, rosso su giallo, cielo d'un blu e d'un rosa incombenti. Di più basse tinte la grande Crocifissione, dove un Cristo “patiens” esala l'ultimo respiro come un urlo, mentre il grottesco presente si raffigura in primo piano con una bimba che indossa una maschera da clown. Un cane “urlante” al Cristo, una colomba che s'innalza come un missile a perforare il basso cielo, e una donna con la testa tra le mani completano la scena, tagliata diagonalmente su un costretto orizzonte spartito in spicchi di colore che si uniscono senza alcuna soluzione prospettica a quello del cielo, acuendo in un pessimismo senza speranza la drammaticità dell'evento.

Sorte dai recessi di un'anima, queste opere vanno a scuotere con la loro tragica espressività recessi di altre anime; parlando, urlando anzi, come ha scritto Luzi, ogni intuita lacerante verità. Anche nell'apparente tranquillità di un dipinto come Franca's dream, il sogno di Franca, composto come icastica e variopinta fabula della moglie addormentata, si coglie il senso del profondo e dell'occulto, dove sulla figura sdraiata in primo piano incombono 'emotivamente' i tellurici dipinti di Ken. Elementi di contrasto tra la rilassatezza della figura giacente e la feroce congestionalità degli animali raffigurati, essi sembrano suggerire il filo intercorrente tra questa donna, capace di suscitare scelte di vita, divenuta suo nume e guida che, man mano, con la sua intelligente comprensione, sarà lenitrice dei suoi stati d'animo, mediatico filtro di quei recessi per lungo tempo insondati e insondabili, poi finalmente liberati attraverso la pittura: Franca Barbara uxor-mater-mulier, entità sostituitiva di quell'altra, dolorosa, della sua infanzia.

Il tempo si rinnova

La pittura di Ken continuerà così nell'ultimo decennio con opere assai significative, saldamente ancorate a quello “spirito del tempo” che pervade la pittura fantastico-surreale della coeva pittura europea e americana. Opere come la Summertime Allegory n. 2, composita fantasia incentrata sul rapporto dell'uomo con la natura, dominata dalla preminenza spaziale delle farfalle e sostenuta da un ductus narrativo dal forte senso del segno e del colore, che ribadisce con altri dipinti come Medea e Cebra-Avenue il raggiungimento della sua maturità artistica con tutti i molteplici, intricati messaggi di contenuto umano.
Nel coerente operare di Ken Tielkemeier si è sempre evidenziata la volontà, mai scalfita dalle varie mode correnti, di un coerente scandaglio operato sia nel senso fisico delle forme, espresse nelle vibrazioni della materia e del sangue, sia frugando nei recessi dell'animo per restituire, sublimati dall'arte, quei “malesseri” contratti lungo il tortuoso “mestiere di vivere”.

Attraverso di essi, esprimendo la più intima quanto dolorosa immagine di sé, a settant'anni suonati l'artista riannoda nel nuovo studio di via Guerrazzi la ritrovata traccia di umana realtà che va sovrapponendo all'irreale: corpi muliebri dipinti sullo sfondo delle sue tele fantastiche, a significare l'inscindibilità tra i mondi del reale e dell'inconscio. Attivo e più che mai entusiasta, con la fragile e dirompente vena del suo discorrere, Ken Tielkemeier riprende dunque proprio all'inizio di questo terzo millennio il suo rapporto con Firenze, città lungamente sognata al di là dell'Atlantico come luogo del cuore e dei bei giorni, quando un profeta laico di nome Rosai che professava un'arte come “vita, sofferenza, dolore e gioia insieme”, aveva intuito come quel giovane, gioioso e doloroso yankee, stesse già percorrendo “la vera strada della pittura”.

Marco Moretti, da Ken Tielkemeier "Magic Expressionism", 2001